Consenso informato: un percorso da fare insieme


Vorrei parlare oggi di consenso informato, un argomento che riguarda tutte le attività in materia sanitaria che ci coinvolgono e che possiamo incontrare nella nostra vita, ma se la procedura è semplice e lineare quando dobbiamo firmare il consenso ad una procedura invasiva o ad un intervento chirurgico cui dobbiamo essere sottoposti, la cosa si complica enormemente quando si incontrano le tematiche di inizio e di fine vita.
Il 12 luglio 2011 dopo l'approvazione al Senato è stato approvato dalla Camera il Disegno Legge sulle D.A.T., Disposizioni in materia di Alleanza Terapeutica, Consenso Informato e Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, che ha come fine la tutela della vita e della salute, riconoscendo la vita quale diritto inviolabile e indisponibile, vietando eutanasia e suicidio assistito e imponendo al medico l'obbligo di informare sulla diagnosi e i trattamenti sanitari più appropriati, come il non ricorrere all'accanimento terapeutico, questo non riguarda l'alimentazione e l'idratazione, che devono essere garantite sino alla fine, il documento che evidenzia ogni passaggio del percorso medico-paziente è rappresentato dalla cartella clinica.

Parlare di consenso informato significa anche parlare di diagnosi e di prognosi e non è così semplice come può sembrare: comunicare una diagnosi, anche brutta, ma che si può curare, di cui si hanno a disposizione "armi"  per affrontarla e vincerla è un conto, ma comunicare una diagnosi con prognosi infausta è un'altra cosa. All'inizio, quando vedevo pazienti in condizioni di salute compromesse catapultati alle cure palliative senza sapere non solo la prognosi ma anche la diagnosi, confusi, avviliti e debilitati, dopo aver affrontato cure lunghe e dolorose che non li hanno guariti, provavo indignazione verso i medici che non li avevano accompagnati, sostenuti e guidati nel modo giusto, nella mente avevo chiaro in testa cosa avrebbero dovuto fare e non hanno fatto, poi un'esperienza formativa molto forte mi ha schiarito le idee in modo brusco.

La formazione continua è un aspetto importantissimo delle professioni sanitarie e delle professioni di aiuto, in quanto non si smette mai di imparare e di crescere professionalmente e dovrebbe essere un bisogno, quello formativo, che i professionisti dovrebbero sentire autonomamente, non dovrebbe essere una forzatura esterna, pena sanzioni, comunque non tutti i professionisti avvertono la necessità di formarsi, quindi occorre che altri li destino dal sonno abitudinario, per cui la creazione dei crediti formativi ECM assolve a questo scopo.
Mentre lavoravo nelle Cure Palliative ho avuto l'occasione di partecipare ad un corso intensivo di una settimana sul lago di Como sul fine vita e tutte le tematiche di confine (eutanasia, sedazione terminale, ...), il corso prevedeva molti laboratori e tecniche come il role planning (gioco dei ruoli) e la video ripresa di simulazioni, una di queste aveva come tema proprio la comunicazione di prognosi infausta ed il passaggio dalla terapia curativa alla terapia palliativa e, anche se professionalmente non spetta agli infermieri questo compito, nelle cure palliative l'infermiere è quello che trascorre maggior tempo con pazienti e familiari e non può sottrarsi dalle domande difficili eludendole o spostando la palla al medico, anche perché equivarrebbe comunque ad una risposta, quindi deve affrontarle e gestirle nel modo migliore, non puoi scappare...
In quella simulazione avevo il ruolo dell'oncologo che doveva comunicare ad una paziente il fallimento delle terapie curative, la prognosi infausta e il passaggio alle cure palliative. Sulla carta sembra facile e nella mia testa avevo chiare sia le parole da dire sia il modo empatico di dirle, così la mia preoccupazione era rivolta a fattori esterni come la telecamera e le persone che avrebbero studiato e giudicato il mio operato, essendo di carattere introverso, non mi sentivo affatto a mio agio! Poi accadde qualcosa di inaspettato, diedero il ciak e iniziammo la simulazione, seduti una di fronte l'altra separati da una scrivania, proprio come un ambulatorio medico, e tutto il mio piano mentale saltò per aria, dimenticai completamente la telecamera e fui travolta dalle emozioni che la paziente (un'interpretazione più che realistica) mi suscitava e da quelle che manifestava, mi barcamenavo alla meno peggio cercando di comunicare la verità ma senza toglierle la speranza, ma le mie parole aumentavano la sua angoscia e parallelamente la mia ansia, finché non diedero lo stop e crollai sulla scrivania come se avessi corso per 100 km e compresi che comunicare cattive notizie non solo non era facile, ma che ogni persona reagisce in modo diverso, per cui nessun piano mentale può servire, devi relazionarti e fare il percorso insieme a quella specifica persona.

Il consenso informato è molto più della firma su un documento standard, ma è la tappa di un percorso condiviso dal medico, o dall'equipe medica, e dal paziente, in cui i familiari hanno un ruolo importantissimo, ma non può essere pregiudicante rispetto al paziente, in quanto quello che vive la malattia è lui e ciò che non gli viene specificato e spiegato con le parole da parte del medico è il suo stesso corpo a farglielo capire, quindi negare il problema o minimizzarlo non lo aiuta, tuttavia questo percorso e la comunicazione degli esami da fare per formulare la diagnosi - della diagnosi - delle terapie cui dovrà sottoporsi - della prognosi - delle cure palliative non deve essere lasciato al caso, ma frutto di un percorso di conoscenza del paziente, di incontri, dialoghi, che aiutano l'equipe medica a comprendere che tipo di persona hanno davanti e se/che cosa/fino a che punto vuole essere informata, rispettandola e sostenendola nei vari momenti: ci sono pazienti che fanno molte domande e vogliono sapere tutto, ci sono altri che si limitano ad ascoltare le informazioni ricevute senza approfondire, ci sono altri che si arrampicano sugli specchi pur di non arrendersi ad una diagnosi infausta tentando cure alternative, non convenzionali ed alcune assurde, pur se inutili e, in vari casi, dannose, ci sono altre persone ancora che si chiudono nel silenzio e accettano tutto quanto viene deciso collaborando, e altri no... ogni persona è diversa e il medico deve relazionarsi con quella persona rispettandone tempi, peculiarità ed anche la volontà di non sapere la prognosi, come detto il corpo parla chiaro e i pazienti possono accettare e far fronte ai cambiamenti, finché i propri timori non diventano realtà, allora non ce la fanno ad affrontarla, così come ci sono altri che, per non far soffrire i familiari, accettano di recitare il teatrino del "va tutto bene", ma poi, appena si allontanano, ti guardano negli occhi e si confidano con te e/o col medico, scaricando quel peso opprimente di paura e dolore che li sta schiacciando e che, con i parenti, non hanno modo di sfogare, per paura e per non vederli soffrire.

E' facile stabilire a priori, in ambito formativo o nei convegni, così come in sedi istituzionali, cosa è giusto fare e come farlo, ma poi è l'equipe medica che vive quella scomoda realtà con pazienti e familiari, per cui è importante dare delle direttive, purché non siano chiuse e servano a dare spunti riflessivi indicando una modalità comune d'intervento, ma siano rispettose del dialogo e della relazione medico-paziente, frutto di un percorso condiviso.

Concludendo vorrei affermare l'importanza che per i pazienti ha l'avere come punto di riferimento un medico solo, ora che lo sono anche io da diversi anni lo comprendo molto bene, e non rimbalzare da medico a medico, o, peggio ancora, da specializzando a specializzando, che di pazienti ne vedono tanti e per capire chi sei e cosa hai lo deve leggere in una cartella clinica e si ritrova a dirti le medesime cose che ti sono già state dette e tu devi ripetere le medesime risposte e per darti indicazioni nuove lo vedi uscire dalla stanza e chiederle al medico strutturato quindi te le riporta facendoti non solo sentire che non sei veramente seguito, ma anche che oltre alla malattia devi combattere pure contro il sistema, per trovare qualcuno che ti prenda sul serio in carico facendoti fare passi in avanti e non ripetere i medesimi passi, oltretutto pagando e facendo pure viaggi per farti visitare. E' già dura essere malati e convivere con un corpo che cambia in continuazione, ma dover combattere contro il sistema e contro medici che non ti ascoltano e non ti credono, bé è troppo e ingiusto...

Commenti