Noi malati non siamo numeri di protocollo, ma persone...


La società in cui viviamo tende sempre più a riferirsi alle persone secondo categorie prestabilite, come le etichette dei prodotti al supermercato (eterosessuali, omosessuali, bianchi, neri, gialli, grassi, magri, alti, bassi, credenti, non credenti,...), generalizzando ed analizzando come in un continuo processo statistico, che, a fini di studio, potrà anche essere utile, ma nei rapporti sociali è deleterio riferirsi a qualcuno e trattarlo come un numero, un utente x di tale protocollo n° tot inserito nello scaffale z del mobile q e questo è ancor più doloroso nel rapporto medico paziente.
Rispetto a quando ho iniziato il corso infermieri nel 1991 ho visto cambiare sempre più la relazione tra operatori sanitari (medici e infermieri soprattutto) e pazienti, per alcuni versi positivamente per altri decisamente negativamente.
E' molto positivo che il medico coinvolga il paziente nelle decisioni che lo riguardano, "perda" più tempo per spiegare diagnosi e vari passaggi del percorso di cura, sia ai pazienti stessi che ai familiari, che approfondisca la storia clinica degli stessi e raccolga tutte le informazioni utili a formulare, unitamente agli esami clinici e diagnostici, una corretta diagnosi e impostare una terapia, per quanto possibile, mirata; prima l'approccio era di tipo paternalistico, il paziente era l'oggetto e non il soggetto del percorso di cura, sapeva e capiva poco e niente delle decisioni mediche, aveva un timore reverenziale verso i medici, specialmente del primario, e, pur non comprendendo, non si azzardava a fare domande, ricordo come dopo le lunghe visite dell'equipe medica in reparto, quando ero allieva infermiera, i pazienti mi chiedevano spiegazioni su cosa era stato detto e deciso e, pur sollecitandoli a fare domande ai curanti, non lo facevano, erano i familiari, assenti alla visita e con confusi dati alla mano, a chiedere chiarimenti ai medici, nei giorni e negli orari che la bacheca riportava.
Dal punto di vista del "dialogo" medico paziente si sono fatti passi da gigante, ma in altri aspetti si sono fatti all'indietro, ad es. nella visita del paziente, prima attenta e approfondita, la persona veniva toccata, osservata, auscultata e palpata dalla testa ai piedi e soltanto dopo venivano prescritti gli esami clinici e diagnostici, sulla base della visita e dei sintomi (riferiti dal paziente) e segni (osservati dal medico) presentati dal malato e la cosa si ripeteva nei successivi controlli, mentre ora, nella maggior parte dei casi, sia a livello pubblico che privato, la prima visita si riduce ad un colloquio (il tempo previsto dalla ASL nel pubblico è di 15 minuti, decisamente insufficienti per conoscere il paziente e visitarlo davvero e in modo approfondito), ad un'intervista ed alla rilevazione della pressione e della frequenza cardiaca (a volte nemmeno quelle), quindi si passa a prescrivere esami e si rimanda il tutto alla visita di controllo (mesi dopo), passando al paziente successivo e via di seguito.
Durante il mio tirocinio ho imparato molto da quei medici che amavano davvero la loro professione e si spendevano per visitare i malati, osservare i referti, studiare il caso clinico, ed ai giovani medici che li accompagnavano, come a noi infermieri e allievi, insegnavano che una corretta e seria visita medica era la base di tutto, che ancor prima di prescrivere e guardare gli esami, bisognava guardare, toccare ed ascoltare il paziente, poi veniva tutto il resto.
I cambiamenti li ho osservati come infermiera e li sto vivendo sulla pelle come paziente, ho incontrato (in alcuni casi è meglio dire che mi sono scontrata) tanti medici nei miei anni di vita, ho sempre avuto problemi di salute, ma ora che soffro, da 8 anni, di una duplice malattia cronica, che si è aggiunta e intersecata con patologie preesistenti, che è ancora oggetto di studio, che non è riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale (quindi niente esenzione e invalidità), ignorata da molti medici, sottovalutata e maltrattata da altri, ma che, pur non essendo grazie a Dio mortale, è invalidante, sta peggiorando e sto incontrando sempre più ostacoli e difficoltà. 
Mi sento spesso ripetere che il mio quadro è complesso, che non rispondo alle terapie come riportato dal protocollo, che, secondo sempre tale protocollo, dovrei sottopormi a terapia psichiatrica farmacologica e psicologica di supporto, perché una malattia cronica comporta anche un carico psicologico notevole e può portare a depressione (cosa verissima, ma da valutare da persona a persona, non si può imporre una cura ed etichettare il paziente come non collaborante perché non la vuole per determinate e valide ragioni), pur se gli psicofarmaci precedentemente prescritti da altro medico, sempre da protocollo, non solo non mi hanno aiutato ma mi hanno anche fatto male, peggiorando in modo serio il mio stato, e senza valutare che primo, essendo disoccupata, non posso affrontare le spese delle terapie di supporto (percorso psicologico e fisioterapia), secondo ho fatto 10 anni di percorso psicologico e ritengo siano più che sufficienti, un supporto di questo genere non si può imporre, è la persona stessa che riconosce di averne bisogno e che, avendo la disponibilità economica (la spesa non è di poco conto!), decide di affrontarlo, così è stato per me, non sono depressa e, pur se avessi i soldi, non lo farei, perché non sento questo bisogno, ho una malattia e la sto affrontando con tutte le sfaccettature e gli eventi collaterali della mia vita e i medici, che mi conoscono da più tempo, concordano con me.
Nonostante questa consapevolezza, una dottoressa della terapia del dolore, nuova, ha anche tentato di farmi dubitare di me stessa dicendo che anche se penso di non averne bisogno non significa che sia così perché il protocollo dice che ecc ecc... Puoi staccarti un attimo dal pezzo di carta, dal computer e guardare me, ascoltare me, riconoscere il mio percorso e darmi credito? Evidentemente no... 
Mi sono resa conto che l'onestà non paga, pur essendo onesta nel raccontare il mio percorso di cura, pur spiegando le mie scelte, pur motivando il mio no, non sono stata ascoltata né compresa, al contraria sono uscita dallo studio frustrata e molto tesa, mi sono rivolta all'equipe di terapia del dolore perché soffro di dolore cronico diffuso, forte e persistente, non c'è un momento in cui non ho dolore e convivo col dolore fisico da 8 anni, i sintomi principali della mia malattia sono dolore ed astenia, fatica, cronici, non depressione, ansia e non so che altro, ma sono stata etichettata come non collaborante, pur se, almeno per il dolore, hanno impostato una terapia forte che sta funzionando.

Noi malati non siamo un numero di protocollo, non siamo standardizzabili, non siamo tutti uguali e non rispondiamo alla stessa maniera, il protocollo serve ed è utile se usato come linea guida, come una serie di indicazioni generali, ma ogni paziente è una storia a sé, ha un quadro clinico ed un trascorso diverso, un corpo diverso, quindi il percorso di cura va impostato, costruito, con quella specifica persona, che va ascoltata, sostenuta, accompagnata e seguita con le peculiarità che ha e che presenta e i vari medici coinvolti nella cura del malato dovrebbero collaborare tra di loro, anche se appartengono a strutture diverse, e non sballottare le persone come palle da un punto all'altro del campo, ognuno chiuso nel proprio ambito. 
E' già difficile convivere con la malattia, non è giusto lottare contro un sistema, contro la burocrazia, la lentezza dei vari passaggi, le lunghe attese per fare un esame o una visita (l'appuntamento per una risonanza importante me lo hanno dato a giugno!!!), i medici che non ti ascoltano, non ti prendono sul serio, ti mettono ostacoli, addirittura ti ridono in faccia (eh si, mi è capitato pure questo, un primario neurologo che è scoppiato a ridere quando gli ho comunicato la diagnosi della mia malattia...), il bisogno fondamentale di ogni malato è quello di sentirsi seguito, preso sul serio, riconosciuto, ascoltato e sostenuto dal proprio medico o dall'equipe che lo segue, di potersi fidare e sentirsi, come dice il gergo tecnico, preso in carica e accompagnato nel lungo o breve percorso di cura... questo bisogno è spesso frustrato o manca ed è davvero terribile, ti fa sentire smarrito e solo, come una barchetta in mezzo al mare in tempesta...
Non trattateci come numeri, siamo persone... e se non capite cosa ci accade, perché non miglioriamo, perché peggioriamo, non date la colpa a noi, non riducete tutto alla casella ansia/depressione, scaricando tutte le responsabilità e lavandovene le mani, ma andate oltre, indagate altre strade, ascoltateci, proponete nuove strategie, fatevi e fateci nuove domande, cercate le risposte e fatelo insieme a noi... non fateci sentire soli... abbiamo bisogno di alleati non di nuovi nemici...

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